Nel corso dell’intervento che ho tenuto a Torino al Convegno Nazionale dei Cavalieri del Lavoro ho discusso di come l’accelerazione del cambiamento tecnologico abbia cambiato e continui a cambiare la società, permettendoci di avere ambizioni sempre superiori.
Un’opportunità per le imprese, una sfida per l’Italia”
Lello Naso, Conduttore: Orban, la coinvolgo perché da questo scenario sembra che ormai ci siano solo i big player che muovono le fila dell’innovazione, invece eravamo partiti con le startup, lei è un venture capitalist e un esperto di startup, è fallito quel modello, magari fallito no, ma ha futuro quel modello di startup o ormai siamo nelle mani di dieci grandi big player mondiali che decideranno il nostro destino?
E qual è il destino delle nostre industrie? Cosa dobbiamo fare per uscire da questo modello oggi?
David: Quando nella prima rivoluzione industriale sono state stese le grandi connessioni ferroviarie, quando l’utilizzo del petrolio è emerso come carburante della civiltà globale che oggi conosciamo, sono nate aziende monopolistiche che allora in un convegno analogo magari qualcuno avrebbe potuto individuare come impossibili da scavalcare, come qualcosa che avrebbe poi guidato l’economia e non c’era alternativa possibile. Eppure oggi non sono più loro i protagonisti del cambiamento.
Questo è un processo naturale, ad ondate, che continua. E oggi non è assolutamente escluso che noi stiamo pensando che la posizione dominante in settori importanti, ma non così centrali e così cruciali come appare, dell’economia di aziende come Google o Facebook o Amazon siano impossibili da superare o da scavalcare, mentre magari siamo di fronte al culmine del loro successo e sono già in corso dei cambiamenti e dei fenomeni che porteranno alla prossima generazione di imprese che invece di essere di mille miliardi di dollari di capitalizzazione, come questi hanno cominciato a raggiungere da poco, avranno successi con picchi ancora più importanti.
E quindi si tratta di vedere la dinamica di questi fenomeni. Alla Singularity University, che è nata al Centro di Ricerche NASA in California proprio dieci anni fa, con finanziamenti tra l’altro di Google, ci occupiamo proprio di capire come l’accelerazione del cambiamento tecnologico cambia la società. Ci siamo espansi anche globalmente, abbiamo aperto anche una sede in Italia, la settimana prossima a Milano se qualcuno di voi ha voglia di venire abbiamo una nostra conferenza di due giorni, il 2 e il 3 ottobre, dove il messaggio fondamentale è che la tecnologia è una forza positiva nella società. E in effetti a me fa un po’ specie un convegno che parla di trasformazione digitale, perché per me è un po’ come l’aria che respiro. Qualcuno che mi dica: «Ma guarda che ti voglio convincere a continuare a respirare», eh sì, grazie, in effetti se smettessi di respirare sarebbe un bel guaio. E così sarebbe un’illusione da parte di alcune delle aziende dire: «Okay, adesso per i prossimi due anni ci trasformiamo, poi basta eh, ci siamo trasformati, non venite più a romperci le scatole ché abbiamo finito».
Non è un singolo sforzo ma effettivamente internalizzare la coscienza di uno sforzo continuativo, in un mondo aperto che non gode più delle protezioni, che fosse della svalutazione della lira o di altri strumenti artificiali per trovare diversi equilibri, dove quindi si è esposti completamente alla concorrenza sia americana o sia cinese.
Relativamente alle startup sono da una cinquantina d’anni a questa parte, quindi non è qualcosa che improvvisamente si è presentato, non è un esempio che non vedevamo fino alla settimana scorsa e adesso: «Mamma mia, cosa sono queste startup? Cominciamo a capirle!» È da cinquant’anni che il metodo esiste, di gestire il rischio: il rischio dell’innovazione esternalizzata all’interno di unità comodamente gestibili il cui fallimento è non solo accettato dalla società ma è gestito come componente necessaria per trovare soluzioni che sono sostenibili in termini di modello di impresa.
Se io diecimila anni fa uscivo dalla caverna e andavo a destra invece che a sinistra, quelli che mi aspettavano la sera e non tornavo sapevano che ero morto; se duecento anni fa dicevo a mia moglie «Senti, io mi sento energico, apriamo una bella taverna» e questa taverna falliva, io andavo nella prigione dei debitori, la mia famiglia si riduceva in povertà totale ed entrambi questi esempi sono un certo tipo di gestione del rischio.
Oggi, specialmente una società come quella italiana di mammoni, ha il privilegio di poter correre rischi enormi. Abbiamo una risorsa incredibile di persone che non hanno ancora trovato la loro strada, che siano diciottenni, ventenni o trentenni. È bellissimo, perché vuol dire che hanno la possibilità di cercarla.
Conduttore: Siamo così scarsi che non possiamo che migliorare.
David: No, no, no. La robustezza della società italiana deriva proprio da un’infrastruttura estremamente duttile e flessibile, sia familiare che sociale che di tipo economico, dove si può fare un numero molto elevato di tentativi che vanno a finir male, per correre il rischio di effettivamente azzeccare quello che poi alla fine funziona.
Conduttore: Servirebbe molti capitali per fare quello che dice lei, che è uno dei problemi strutturali anche di questo Paese.
David: Allora, anche qua bisogna vedere come lo interpretiamo. Nel momento in cui un’azienda italiana viene venduta ad un acquirente estero il giudizio è: «Ah, abbiamo svenduto i gioielli di famiglia»; un modo opposto di giudicarlo è: «No, qualcuno è venuto con i suoi soldi perché crede di investire nelle aziende italiane». Quindi dobbiamo decidere, senza essere bipolari sulla cosa, se lo vogliamo o non lo vogliamo. Quindi se lo vogliamo e arrivano questi capitali, le acquisizioni sono positive, di aziende piccole e di aziende grandi, che vanno gestite, le cui ricadute andranno sicuramente anche a migliorare l’economia italiana.
Conduttore: Senta, lei parla un italiano a volte raffinato, anche questo “bipolare” messo là è una… Perché vive in Italia, vero? Vive a Bergamo.
David: Sì, ho una moglie e tre figli a Bergamo.
Conduttore: Quindi è metà italiano ormai, conosce i nostri pregi e conosce i nostri difetti. Da osservatore esterno che però si è calato nella realtà italiana, lei per dare lo sprint, siamo in un momento – abbiamo capito – in cui o facciamo il salto o rischiamo di finire in fondo alla classifica ma molto peggio di quello che abbiamo visto nella slide del Presidente Sella, quali sono le priorità per il nostro sistema? Se fosse lei il Presidente del Consiglio, il Capo del Governo Italiano, cosa farebbe? Due cose mi deve dire, dal suo punto di vista.
David: Secondo me il compito che diamo alla politica è particolarmente difficile, proprio perché in momenti turbolenti pretendere che loro abbiano le risposte, così come lei adesso pretende da me, è una cosa impossibile e ingrata.
Conduttore: Ma l’hanno chiamata qua per questo.
David: Quindi la prima cosa che i politici devono fare è di dire: «Non abbiamo le risposte. Non è che noi sappiamo. Non è che perché ci avete votato perché vi abbiamo convinti, questo ci fa diventare dei geni» e questo vale anche per altre categorie, i dirigenti aziendali, gli insegnanti, i professori universitari. Se io mi trovo una lavagna intelligente in classe e la prima cosa che succede sbaglio nel suo utilizzo e girando la schiena gli alunni mi prendono in giro sghignazzando, hanno perfettamente ragione. E l’unica cosa che posso fare è dire: «Okay, allora adesso io mi siedo là, magari in prima o in seconda fila, tu che sghignazzi vieni e fammi vedere come funziona perché sicuramente tu lo sai fare meglio di me».
Quindi i politici possono approfittare dell’aiuto anche entusiasta di persone che volentieri investono il loro tempo e la loro capacità, possono copiare e devono copiare quello che funziona dalle altre parti del mondo, perché in un mondo aperto di comunicazioni rapidissime è possibile rendersi conto di che cosa funziona e che cosa non funziona…
Conduttore: E che cosa funziona, secondo lei?
David: Allora, in termini di regolamentazione ci sono due cose che io direi: uno, è impossibile selezionare i vincenti, questo è fonte di errori economici e di corruzione. Le regolamentazioni devono porre una base, la minima possibile, perché i vincenti li sceglieranno i mercati, non la politica.
Conduttore: Quindi meno regole.
David: Il numero minimo necessario possibile di regole.
Il secondo è che le regole stesse devono essere riviste obbligatoriamente, deve esserci un sunsetting della regolamentazione, perché per definizione sono contingenti a quello che si sa nel momento in cui vengono redatte. E i contorni cambiano talmente rapidamente che lasciarle per cinque anni o dieci anni è impossibile, bisogna rivederle e rivisitarle in modo rapido. Il costo della democrazia in questo modo si alza e ogni società si può chiedere se si può permettere il costo di questo gioco. In Cina per esempio c’è un tipo di democrazia tale per cui c’è un’efficienza maggiore…
Conduttore: Questa è una parola sbagliata però, lei parla bene l’italiano ma “democrazia e Cina” è un ossimoro.
David: Se lo chiediamo a loro, loro dicono…
Conduttore: Che sono democratici.
David: …che vivono in un tipo di democrazia. Gli americani sarebbero felicissimi di esportare la democrazia in Cina, così come già hanno fatto in Afghanistan, in Iraq e adesso stanno facendo da altre parti.
(Risate e applausi)
David: E i cinesi giustamente dicono: «No, grazie, lasciateci fare». La varietà delle soluzioni che esistono nel mondo per affrontare le sfide fa sì che la civiltà umana nella sua globalità abbia una certa chance di trovare la strada, proprio perché in un mondo aperto, non appena uno la trova, gli altri possono copiarla, prenderla in licenza se è un brevetto, rubarla se non hanno altra strada, come è successo con i farmaci in India o le cure per l’HIV in Africa. E la nostra capacità – ecco, torniamo all’aspetto politico – di rivalutare anche in chiave sociale e morale quello che le regole del mercato devono o non devono fare, è quello che poi contribuisce ad avere ambizioni sempre superiori.